Studiando un modo inedito per trasformare l’energia nucleare attraverso l’installazione di reattori a un miglio di profondità, ovvero a 1.609 metri sotto la superficie terrestre. Una proposta guidata dalla startup Deep Fission che potrebbe concretizzarsi nel 2026 e che mira a ridurre i costi e rafforzare la sicurezza utilizzando tecniche simili alla perforazione petrolifera. L’approccio si concentra sullo sfruttamento della pressione naturale del sottosuolo per operare senza le complesse strutture normalmente utilizzate in superficie. L’iniziativa prevede di collocare il reattore all’interno di un pozzo allagato, dove la colonna d’acqua genera in modo stabile circa 160 atmosfere. Questa pressione idrostatica consentirà di mantenere il refrigerante allo stato liquido a oltre 300 °C senza la necessità di grandi contenitori di sicurezza, il che riduce significativamente sia lo spessore che il prezzo dei componenti essenziali. La roccia circostante, inoltre, funge da barriera naturale che sostituisce le tradizionali cupole di cemento.
Pressione naturale

Il progetto sviluppato da Deep Fission, denominato Gravity, consiste in un modulo compatto da 15 MW in grado di essere inserito in perforazioni di circa 76 centimetri di diametro. Il calore generato viene convogliato verso la superficie come se si trattasse di un sistema geotermico, utilizzando uranio poco arricchito e un circuito sigillato. Secondo l’azienda, questo approccio ridurrebbe i lavori di ingegneria civile fino all’80% e posizionerebbe il costo per MWh tra i 50 e i 70 euro.
La tecnica riproduce in parte la logica della geotermia, ma applicata alla fissione nucleare. In questo modo, si intende offrire un’alternativa modulabile per le zone in cui la domanda energetica è in crescita e le infrastrutture convenzionali risultano costose o difficili da collocare. L’azienda sostiene che questo approccio consentirebbe di realizzare impianti più rapidi da costruire e con un impatto superficiale praticamente nullo.
La sfida della manutenzione

Il progetto presenta tuttavia un ostacolo evidente: l’accesso per i lavori di riparazione. Qualsiasi sostituzione di sensori, valvole o elementi ausiliari richiederebbe l’estrazione del reattore da una profondità di 1,6 chilometri, manovra che complica compiti che in una centrale convenzionale possono essere risolti con maggiore agilità. Questa circostanza richiede la previsione di sistemi di sollevamento robusti che garantiscano la sicurezza durante ogni intervento.
Nonostante la sfida tecnica, l’azienda afferma di aver attirato l’interesse di enti situati in stati abituati alla perforazione profonda e con un’elevata domanda di energia elettrica. Inoltre, l’azienda prevede di presentare un primo prototipo operativo nel 2026, anche se ricorda che non esiste ancora un quadro normativo specifico per i reattori situati in pozzi verticali.
